Per quello di cui ci prendiamo cura

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Riconsiderare la cura di sé

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La cura di sè è diventata un termine in gran voga nei circoli attivisti. Tuttavia, fino a poco tempo fa, ispirava pochi confronti critici. “Sé” e “cura” significano sempre la stessa cosa? E che dire della parola “salute?” In che modo questo dibattito è stato colonizzato dai valori capitalisti? E come possiamo espandere la nostra nozione di cura al di fuori degli stereotipi comuni?

In quest’analisi, identificheremo le tendenze normative nella retorica convenzionale della cura di sé, discuteremo di come annullare la distribuzione diseguale di cura nella nostra società ed esploreremo la forza potenzialmente trasformativa della malattia e del comportamento autodistruttivo.

Questo è il primo di una serie di saggi sulla cura che pubblicheremo a breve. Non vediamo l’ora di intraprendere un dialogo più approfondito sull’argomento.


Negli anni Ottanta, mentre lottava contro il cancro, Audre Lorde affermò che prendersi cura di se stessa era “un atto di guerra politica.” Da allora, la cura di sé è diventata una parola d’ordine popolare nei circoli attivisti. La retorica della cura di sé è passata da specifica a universale, da provocatoria a normativa. Quando oggi parliamo di cura di sé, intendiamo la stessa cosa di cui parlava la Lorde? È tempo di riesaminare questo concetto.

Ma cosa potrebbe esserci di sbagliato nella cura? E perché, tra tutte le cose, prendersela con la cura di sè?

Innanzitutto, perché è diventata un dogma. È doloroso sentire le persone parlare con arroganza di qualunque cosa, soprattutto di quelle più importanti. La pia unanimità implica un lato oscuro: all’ombra di ogni chiesa, un ricettacolo d’iniquità. Crea un altro, mettendo dei paletti anche tra noi.

In questa società, il sé e la cura - in quest’ordine - sono valori universalmente riconosciuti. Chiunque sostenga la cura di sé è nel giusto, come dice il proverbio – ovvero, contro tutte le parti di noi che non si confanno al sistema di valori prevalente. Se vogliamo resistere all’ordine dominante, dobbiamo interpretare il ruolo dell’avvocato del diavolo, cercando ciò che è escluso e denigrato.

Ovunque un valore sia considerato universale, troviamo sempre le pressioni della normatività: per esempio, quella esercitata sull’adempiere alla cura del sé per il bene altrui, salvando le apparenze. Gran parte di ciò che facciamo in questa società ha a che fare con la nostra capacità di fornire un’immagine di noi come persone di successo e indipendenti, a prescindere dalla realtà. In quest’ambito, la retorica sulla cura di sé può celare silenziamento e sorveglianza: affronta i tuoi problemi da solo, per favore, cosicché nessun altro debba farlo.

Partire dal presupposto che la cura di sé sia sempre un bene, vuol dire dare per scontato che cura di sé e cura abbiano sempre lo stesso significato. Qui, vogliamo contestare le concezioni monolitiche e statiche d’individualismo e cura. Noi, invece, suggeriamo che diversi tipi di cure producano diversi tipi di sé e che la cura sia uno dei campi di battaglia su cui si svolgono le lotte sociali.

Non dirmi che mi devo rilassare

Anche se i sostenitori della cura di sé sottolineano che questa può sembrare differente per ogni persona, i consigli, di solito, sembrano stranamente simili. Quando pensi ad attività stereotipate di “cura del sé,” cosa t’immagini? Bere tisane, guardare un film, fare un bel bagno immerso nella schiuma, meditare, fare yoga? Quest’elenco suggerisce un’idea molto ristretta di cosa sia la cura di sé: essenzialmente, significa rilassarti.

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Tutte queste attività sono concepite per coinvolgere il sistema nervoso parasimpatico, che regola riposo e recupero. Alcune forme di cura richiedono però attività faticose e adrenalina, il regno del sistema nervoso simpatico. Un modo per prevenire il disturbo da stress post-traumatico è, per esempio, concedere al sistema nervoso simpatico abbastanza libertà da liberare il corpo dal trauma. Quando una persona ha un attacco di panico, di rado trae beneficio da chi prova a calmarla; il modo migliore per gestire un tale attacco è correre.

Iniziamo quindi a rigettare qualsiasi interpretazione normativa di cosa significhi prendersi cura di noi stessi. Potrebbe voler dire accendere delle candele, ascoltare un album di Nina Simone e rileggere The Animal Family (La famiglia degli animali) di Randall Jarrell. Potrebbe anche voler dire BDSM, performance artistiche intense, combattimenti di arti marziali miste, sfondare le vetrine di una banca o sfidare una persona che ti ha maltrattato. Per gli altri potrebbe anche sembrare un lavoro davvero duro - o smettere di funzionare del tutto. Questo non è solo un luogo comune postmoderno (“Paese che vai, usanza che trovi”), ma una domanda su quale tipo di relazione instauriamo con le nostre problematiche e le nostre ansie.

Prendersi cura di noi stessi non significa rilassarci. Dovremmo nutrire dei sospetti nei confronti di qualsiasi concezione di cura del sé che identifichi il benessere con la pacatezza o che ci chieda di inscenare la “salute” per gli altri. Possiamo, invece, immaginare una forma di cura in grado di fornirci la capacità di stabilire una relazione intenzionale con il suo lato oscuro, che ci permetta di trarre forza dal caos vorticoso che giace all’interno? Coccolarci dolcemente potrebbe essere una parte essenziale di questo processo, ma non dobbiamo dare per scontato che esista una dicotomia tra guarigione e affrontare le sfide fuori e dentro di noi. Se la cura è solo ciò che accade quando ci allontaniamo da quelle lotte, saremo per sempre divisi tra un insoddisfacente ritiro dal conflitto e il suo rovescio, uno stacanovismo che non è mai sufficiente. Idealmente, la cura dovrebbe comprendere e trascendere sia la lotta sia la guarigione, travalicando i confini che le dividono.

Questo tipo di cura non può essere descritto attraverso luoghi comuni. Non è un punto utile per l’ordine del giorno da aggiungere al programma di un’organizzazione no profit media. Richiede misure che interrompano i nostri ruoli attuali, portandoci in conflitto con la società in generale e persino con alcune delle persone che professano di provare a cambiarla.

Da come rispondi al pericolo è facile dire come hai vissuto
e cosa ti è stato fatto.
Mostri se vuoi rimanere in vita,
se pensi di essere degno
e se credi che sia
un bene recitare.
- Jenny Holzer

L’amore è un campo di battaglia

Se vogliamo individuare ciò che vale la pena preservare nella cura di sé, possiamo iniziare a esaminare la cura stessa. Sostenere che questa sia un bene universale significa perdere di vista il ruolo che svolge anche nel perpetuare gli aspetti peggiori dello status quo. Non esiste la cura nella sua forma pura - la cura estrapolata dalla vita quotidiana nel capitalismo e dalle lotte contro di lui. No, la cura è di parte - o reprime o libera. Ne esistono forme che riproducono l’ordine esistente e la sua logica, e altre che, invece, ci consentono di combatterlo. Vogliamo che le nostre espressioni di cura alimentino la liberazione, non il dominio, per riunire le persone secondo una logica e dei valori diversi.

Dalle faccende domestiche alle pulizie professionali - per non parlare di sanità, accoglienza e sesso telefonico - le donne e i neri sono sproporzionatamente responsabili delle cure che mantengono il funzionamento di questa società ma, tuttavia, hanno sproporzionatamente poca voce in capitolo su ciò che la cura promuove. Allo stesso modo, un’enorme quantità di cure va a oliare i macchinari che mantengono la gerarchia: famiglie che aiutano i poliziotti a rilassarsi dopo il lavoro, prostitute che aiutano uomini d’affari a sfogarsi, segretarie che assumono il lavoro invisibile che preserva i matrimoni dei dirigenti.

Pertanto, il problema con la cura di sé non è solo la premessa individualistica. Per alcuni di noi, concentrarsi sulla cura di sé anziché prendersi cura degli altri sarebbe una proposta rivoluzionaria, sebbene quasi inimmaginabile - mentre i privilegiati possono complimentarsi a vicenda per le loro eccellenti pratiche di cura di sé senza riconoscere quanto del proprio sostentamento traggono dagli altri. Quando concepiamo la cura di sé come responsabilità individuale, abbiamo meno probabilità di vedere le sue dimensioni politiche.

Qualcuno ha chiesto uno sciopero della cura: una resistenza collettiva e pubblica ai modi in cui il capitalismo si è impossessato di essa. Nel loro testo “A Very Careful Strike,” (Uno sciopero molto accurato) le militanti spagnole Precarias a la Deriva (Precarie alla deriva) esplorano i modi in cui la cura è stata mercificata o resa invisibile, da servizio clienti sul mercato ad assistenza emotiva nelle famiglie. Ci sfidano a immaginare i modi in cui le cure potrebbero essere sottratte dal mantenimento della nostra società stratificata, prodigandosi invece nel favorire solidarietà e rivolta.

Ma un tale progetto dipende da coloro che sono già i più vulnerabili nella nostra società. Ci vorrebbe un sostegno eccezionale per familiari, prostitute e segretarie affinché partecipino a uno sciopero della cura senza subire conseguenze spaventose.

Quindi, anziché promuovere la cura di sé, potremmo cercare di reindirizzare e ridefinire le cure. Per alcuni di noi, ciò significa riconoscere quanto beneficiamo degli squilibri nell’attuale distribuzione delle cure e passare da forme di assistenza che si concentrano solo su noi stessi al supportare strutture di cui possano beneficiare tutti i partecipanti. Chi sta lavorando per farti riposare? Per altri, potrebbe significare prendersi più cura di noi stessi di quanto non ci sia stato insegnato a credere di averne diritto - anche se non è realistico aspettarsi che qualcuno intraprenda questo percorso individualmente come una sorta di politica consumistica del sé. Anziché creare comunità della cura chiuse, perseguiamo forme di cura espansive, che interrompano il nostro isolamento e minaccino le nostre gerarchie.

I privilegiati si sono appropriati della retorica della cura di sé in modi in modo tale da poterne rafforzare i diritti, ma una critica della cura di sé non deve essere usata come un’altra arma contro coloro che sono già scoraggiati dal cercare cure. In breve: un passo avanti, un passo indietro.

Una lotta che non comprende l’importanza delle cure è destinata a fallire. Le rivolte collettive più accese sono costruite su una base che deve essere nutrita. Ma reclamare l’assistenza non significa solo concederci maggior cura, come un altro punto dopo tutti gli altri nella lista delle cose da fare. Significa rompere il trattato di pace con i nostri sovrani, ritirare le cure dai processi che riproducono la società in cui viviamo e metterle a servizio di scopi sovversivi e rivoluzionari.

Oltre l’autoconservazione

“La salute è un fatto culturale nel senso più ampio del termine, un fatto politico, economico e anche sociale, un fatto legato anche a una certa condizione di consapevolzza individuale e collettiva. Ogni epoca evidenzia un profilo sanitario ‘normale.’” – Michel Foucault

Il miglior modo per far accettare alle persone un programma normativo consiste nell’inquadrarlo in termini di salute. Chi non vuole essere sano?

Ma come il “sé” e la “cura,” la salute non è una cosa: di per sé, non è intrinsecamente buona - è semplicemente la condizione che consente a un sistema di continuare a funzionare. Si può parlare della salute di un’economia o di quella di un ecosistema: queste, spesso, sono inversamente proporzionali. Questo spiega perché alcune persone descrivono il capitalismo come un cancro, mentre altri accusano gli “anarchici black bloc” di essere il cancro. I due sistemi sono letali l’uno per l’altro; nutrire l’uno significa compromettere la salute dell’altro.

La funzione repressiva delle norme sanitarie è abbastanza ovvia nel campo professionale della salute mentale. Laddove un tempo drapetomania e anarchia venivano invocate per stigmatizzare schiavi in fuga e ribelli, i medici di oggi diagnosticano il disturbo oppositivo provocatorio. Ma la stessa cosa accade lontano dalle istituzioni psichiatriche.

In una società capitalista, non dovrebbe sorprendere che si tenda a misurare la salute in termini di produttività. Cura di sé e stacanovismo sono due facce della stessa medaglia: presèrvati in modo da poter produrre di più. Ciò spiegherebbe perché la retorica della cura di sé sia così diffusa nel settore no profit, dove la pressione esercitata per ottenere più fondi spesso costringe gli organizzatori a imitare il comportamento aziendale, pur utilizzando una terminologia diversa.

Se la cura di sé è solo un modo per alleviare l’impatto di una domanda sempre più crescente di produttività, anziché un rifiuto trasformativo di quella domanda, questo fa parte del problema, non della soluzione. Perché la cura di sé sia anticapitalista, dovrà esprimere una diversa concezione della salute.

Ciò è particolarmente complicato poiché la nostra sopravvivenza diventa sempre più interconnessa con il funzionamento del capitalismo - una condizione che qualcuno ha designato con il termine *biopotere.* In questa situazione, il modo più semplice per preservare la tua salute consiste nell’eccellere nella corsa al capitalismo, la stessa cosa che ci sta facendo tutto questo male. “Non ci sono altre pastiglie da prendere, quindi ingoia questa che ti ha fatto ammalare.”

Per sfuggire a questo circolo vizioso, dobbiamo passare dalla riproduzione di un “sé” alla produzione di un altro. Ciò richiede una nozione di cura di sé che sia trasformativa anziché conservatrice - che veda il sé come dinamico e non come statico. Il punto non è evitare il cambiamento, come nella medicina occidentale, ma il promuoverlo; nei Tarocchi, la Morte rappresenta la metamorfosi.

Dal punto di vista del capitalismo e del riformismo, tutto ciò che minaccia i nostri ruoli sociali non è salutare. Finché restiamo all’interno del precedente paradigma, può darsi che solo comportamenti ritenuti malsani possano indicare la via d’uscita. Rompere con la logica del sistema che ci ha tenuto in vita richiede un certo abbandono avventato.

Questo potrebbe chiarire il collegamento tra un comportamento apparentemente autodistruttivo e la ribellione, che risale a molto tempo prima del punk. Il settore estremista delle assemblee di Occupy Oakland, dove si ritrovavano tutti i fumatori, era conosciuto affettuosamente come il “polmone nero black bloc” - il cancro di Occupy, in effetti! L’energia autodistruttiva che spinge le persone alla dipendenza e al suicidio può anche consentir loro di correre forti rischi per cambiare il mondo. Siamo in grado di identificare numerose correnti all’interno di comportamenti autodistruttivi; alcuni di questi precludono delle possibilità, altri, invece, le aprono. Abbiamo bisogno di un linguaggio con cui esplorarlo, per evitare che quello da noi utilizzato per la cura di sé perpetui un falso binario tra malattia e autodistruttività da un lato e salute e lotta dall’altro.

Perché quando parliamo di rompere con la logica del sistema, non stiamo solo parlando di una decisione audace che, presumibilmente, soggetti sani intraprendono da soli. Anche a prescindere dal comportamento “autodistruttivo,” molti di noi già sperimentano malattie e disabilità che ci pongono al di fuori del concetto di salute di questa società e questo ci costringe ad affrontare la questione del rapporto esistente tra salute e lotta.

Quando si parla di lotta anticapitalista, associamo anche la salute alla produttività, implicando che chi è malato non vi può prender parte in modo efficace? Invece, senza rivendicare il malato come soggetto rivoluzionario à la the Icarus Project (Progetto Icaro), potremmo cercare modi con cui affrontare le malattie che ci permettano di uscire dal nostro condizionamento capitalista, interrompendo un modo di essere in cui autostima e legami sociali trovino il proprio fondamento su una mancanza di cura per noi stessi e per gli altri. Anziché patologizzare la malattia e l’autodistruttività come disturbi da curare per motivi di efficienza, potremmo immaginare la cura di sé come un modo per dar loro retta e raggiungere nuovi valori e possibilità.

Pensa a Virginia Woolf, Frida Kahlo, Voltairine de Cleyre e tutte le altre donne che hanno intrapreso le loro lotte private con malattie, infortuni e depressione per creare espressioni pubbliche di cura insubordinata. Che dire di Friedrich Nietzsche: la sua salute cagionevole fu un semplice ostacolo, che riuscì a superare coraggiosamente? O fu inscindibile dalle sue visioni e dalle sue lotte, un passo essenziale sul percorso che lo condusse lontano dalle opinioni dei più in modo che potesse scoprire qualcos’altro? Per capire i suoi scritti in relazione alla sua vita, dobbiamo immaginare Nietzsche su una sedia a rotelle che carica un cordone di agenti in assetto antisommossa, non mentre vola in aria con una S sul petto.

La tua fragilità umana non è una colpa deplorevole che deve essere sanata con un’adeguata cura di sé in modo che tu possa lavorare sodo. Malattia, disabilità e improduttività non sono anomalie da eliminare; sono momenti che si verificano nella vita di chiunque e che offrono un terreno comune su cui potremmo incontrarci. Se prendiamo sul serio queste sfide e proviamo a concentrarci su di esse, potrebbero indicare la strada oltre la logica del capitalismo, verso un modo di vivere in cui non esista una dicotomia tra cura e liberazione.

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